Sindrome di Stoccolma

La tesi di Lowenstein

In un articolo del 2006 il professor Lowenstein ha messo a confronto l’alienazione genitoriale con la sindrome di Stoccolma del caso Natascha Kampusch, una bambina austriaca rapita da un maniaco all’età di 10 anni e tenuta segregata per anni. Lowenstein individua analogie e similitudini nelle due condizioni di manipolazione.

Un altro caso famoso di sindrome di Stoccolma è quello di Patricia Hearst (nella foto).

Cosa dice Wikipedia sulla Sindrome di Stoccolma

Ma cos’è in concreto la sindrome di Stoccolma? Senza cercare fonti accademiche primarie è facile farsi un’idea del problema leggendo la voce di Wikipedia che appare assai ben scritta e documentata.

Una prima citazione può servire come efficace introduzione:

«Alcune vittime di sequestri, che provarono la “sindrome”, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, ed una di esse ha sposato Olofsson (uno dei rapinatori). Altre vittime hanno iniziato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.»

Colpisce il fatto che non serve un particolare approfondimento per trovare le analogie tra la sindrome di Stoccolma e l’alienazione parentale. Wikipedia scrive:

«In via preliminare, si consideri che nello sviluppo della “Sindrome di Stoccolma”, sono stati individuati tre stadi: il sentimento positivo dei prigionieri verso i loro carcerieri, collegato al sentimento negativo verso la polizia. Tale sentimento è spesso contraccambiato dai carcerieri. Per risolvere favorevolmente un caso con ostaggi, la polizia deve, perciò, incoraggiare e tollerare le prime due fasi, così da provocare la terza salvando in tal modo la vita del sequestrato.»

Il fenomeno dell’ostilità verso la polizia, che in realtà sta cercando di salvare gli ostaggi, corrisponde molto bene al fenomeno del rifiuto di un genitore da parte del minore alienato in caso di alienazione parentale.

Ma ci sono altri spunti interessanti:

«L’ostaggio si “identifica” nel carceriere per paura, e non certo per affetto, e “regredisce” ad uno stadio infantile inferiore a quello di un bimbo di cinque anni. L’ostaggio si trova in una situazione di estrema dipendenza dal carceriere esattamente come il bambino dipendeva totalmente dalla figura paterna, o comunque genitoriale, che rappresentava controllo e sicurezza.

Se alla “famiglia” sovrapponiamo il microcosmo “ostaggio-carceriere” è facile comprendere come la polizia che punta le armi, o comunque pone in essere azioni aggressive, verso il malvivente, di fatto le punta anche contro l’ostaggio che vede nel carceriere, armato, l’unico che possa concretamente difenderlo trasformandolo, perciò, in una sorta di “eroe positivo”. A ben guardare, tale azione offensiva è, in realtà, l’unico sistema di difesa che si propone ed il rapinatore si trova, così, legato ad altri individui, in genere a lui sconosciuti, che finiranno per simpatizzare con lui e, in alcuni casi, addirittura a compenetrarsi nei suoi problemi, comprendendo ed accettando le motivazioni che lo hanno spinto al gesto che ormai li lega e li pone dinanzi al pericolo, comune, della morte.

Dall’altra parte le forze di polizia, il cui scopo precipuo è aiutare l’ostaggio, sono palesemente in difficoltà, incerti sul da farsi e sempre bisognevoli di ricorrere ad autorizzazioni sovraordinate per qualunque richiesta venga loro rivolta; ciò contribuisce ad esaltare, agli occhi delle vittime, la figura del sequestratore che, invece, appare sicuro di se, deciso, che dimostra di avere idee chiare che trasforma in condizioni precise e sa palesare minacce concrete.»

Ancora Wikipedia:

«Nella stragrande maggioranza dei casi, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’”effetto della sindrome”, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e NON fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere etc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di “sindrome” poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sotto controllo la situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza. Un’altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l’immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata.»

Come in ogni altro ambito, anche qui va precisato che lo strumento dell’analogia è utile se viene usato per quello che è, uno strumento euristico che necessita di cautela e senso della misura. Non si può quindi affermare che l’alienazione parentale è uguale alla sindrome di Stoccolma.

Il caso Hearst è stato valutato in un processo penale

Problema importante riguarda l’uso della sindrome di Stoccolma nel processo penale. Per quanto penetrante sia il “controllo mentale” che può instaurarsi sugli ostaggi, nel caso in cui vengano commessi dei reati da parte degli stessi, il fenomeno della Sindrome di Stoccolma può non essere accettato come scriminante in senso giuridico. In effetti, Patricia Hearst venne condannata per la rapina a cui aveva partecipato, anche se i suoi avvocati ne chiesero l’assoluzione proprio sulla base del fatto che sarebbe stata manipolata dai suoi sequestratori. Il consulente dell’accusa invece dimostrò che la donna aveva motivi pregressi per abbracciare la causa politica dei sequestratori e che quindi l’eventuale “controllo mentale” instauratosi successivamente era solo una delle componenti che spiegavano il suo comportamento. Resta il fatto che dopo la condanna a 35 anni la donna ottenne la grazia dal presidente Carter e scontò solo due anni di carcere. Evidentemente le ragioni dell’accusa erano forse valide dal punto di vista strettamente tecnico, ma era rimasto un ragionevole dubbio sul fatto che la ragazza fosse pienamente responsabile delle sue azioni al momento dei fatti.

Differenze con l’alienazione parentale

Ma tornando all’analogia e alle differenze con l’alienazione parentale, va tenuto conto che la Hearst era maggiorenne all’epoca dei fatti, aveva commesso un grave reato e durante il processo non collaborò con gli inquirenti. Era difficile per il sistema della giustizia penale americana considerarla totalmente incapace di intendere e volere e mandarla assolta. Le vittime di alienazione parentale invece sono bambini, considerarli giuridicamente capaci di una decisione grave come quella di rifiutare ogni contatto con un genitore sarebbe contradditorio con l’intero sistema di tutela legale dei minori.

Riferimenti: